A parte quelle riflessioni più ovvie che ogni tanto non potevano non destare delle apprensioni nell’animo di qualsiasi persona, Moby Dick mi suscitava un altro pensiero, o piuttosto un orrore vago e senza nome, così intenso a volte da soverchiare tutto il resto; e tuttavia così misterioso e quasi ineffabile che a momenti dispero di poterlo esprimere in una forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che sopratutto mi atterriva. […] sempre nell’idea più profonda di questo colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel rosso che ci atterrisce nel sangue.
È questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza, quando è separata da associazioni più benigne e accoppiata con un oggetto qualunque che sia terribile in sé stesso, capace di accrescere quel terrore fino all’estremo. Ne sono prova l’orso bianco polare e lo squalo bianco dei tropici; cos’altro se non la loro bianchezza soffice e fioccosa li rende quegli orrori ultraterreni che sono? È quella bianchezza spettrale che impartisce una bonarietà così orrenda, più ancora ripugnante che spaventosa, alla fissità ottusa del loro aspetto. Tanto che nemmeno la tigre con le sue zanne feroci, avvolta nel suo mantello araldico, può scalzare a un uomo il coraggio meglio dell’orso e del pescecane dal sudario bianco.
[…] E in certe cose la stessa comune ed ereditaria esperienza di tutto il genere umano riconferma la natura soprannaturale di questo colore. Certo non si può mettere in dubbio che nei morti la qualità visibile che più ci atterrisce è il pallore marmoreo dei loro aspetti; quel pallore che davvero parrebbe il simbolo dello sbigottimento ispirato dall’al di là, e insieme di questa nostra trepidazione mortale. E da quel pallore dei morti prendiamo in prestito il colore simbolico del sudario in cui li fasciamo. Nemmeno nelle nostre superstizioni ci dimentichiamo di gettare lo stesso mantello di neve attorno ai fantasmi: tutti appaiono in una nebbia lattiginosa. Sicuro, e mentre siamo soggetti a queste paure, aggiungiamo che lo stesso re del terrore, com’è personificato dall’evangelista, monta un cavallo pallido.
Perciò, sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo più profondo, ideale significato, la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma.
[…] Però non abbiamo ancora risolto il mistero di questa bianchezza né scoperto perché abbia un fascino così potente sull’anima; e, cosa più strana e assai più stupefacente, perché mai, come abbiamo visto, essa sia nello stesso tempo il simbolo più pregnante delle cose dello spirito, anzi il velame stesso della Divinità Cristiana, mentre poi è indubbio che opera a fare più terribili le cose che più atterriscono l’uomo.
Forse, con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della via lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato, in un gran paesaggio di nevi, un omnicolore incolore di ateismo che ci ripugna? E ci viene anche da pensare a quell’altra teoria dei filosofi della natura, che tutte le altre tinte terrene, ogni ornamento delicato o solenne, le sfumature soavi dei cieli e dei boschi al tramonto, fino ai velluti aurei delle farfalle e alle guance di farfalla delle ragazze, tutte queste cose non sono che subdoli inganni, qualità non inerenti alle sostanze ma solo appiccicate dal di fuori. Sicché tutta questa Natura deificata non fa che dipingersi proprio come una puttana che copre di vezzi il carnaio che ha dentro. E andando ancora oltre, ricordiamo che il cosmetico misterioso che produce tutte le tinte del mondo, il gran principio della luce, rimane sempre in sé stesso bianco e incolore, e se operasse sulla materia senza una mediazione darebbe a ogni oggetto, anche ai tulipani e alle rose, la sua tinta vuota. Quando riflettiamo su tutto questo, l’universo paralizzato ci sta davanti come un lebbroso; e come viaggiatori testardi che attraversando la Lapponia rifiutano di mettersi sugli occhi vetri colorati e coloranti, l’infelice miscredente si acceca a fissare l’immenso sudario bianco che avvolge attorno a lui tutto il paesaggio. E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo. Perché allora vi meraviglia questa caccia feroce?
Herman Melville, Moby Dick o La balena (1851)