Quanto a me, anche i ricordi più lontani mi coglievano come scoperte. Erano altrettanti risvegli che mi rimettevano nel presente. Il fatto più singolare – tanto che spesso lo provocavo ad arte – era di accorgermi che un gesto, un colore, una voce, li avevo già visti o sentiti chi sa quando, e che perciò risorgevano dalla mia stessa coscienza più che dalle cose intorno. A questo sospetto, a questa certezza di sentirmi radicato nel mondo, provavo un entusiasmo tranquillo che, pur essendo per natura limitato ai miei occhi e al mio corpo, poteva nella sua fugacità scuotermi come un incontro umano. Avevano veramente, questi risvegli sempre inattesi, qualcosa della presenza di un altro, la presenza di un amico o quella, ancor muta, di chi lo sarà presto e tacendo ci cammina accanto e ci guarda. Cose non dette trasparivano in fondo all’istante come un oggetto noto in fondo all’acqua di una vasca, e sarebbe bastato quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza. Ciò accadeva specialmente al mutare delle stagioni, quando l’aria è tutta corsa da brividi di passato che, freschi e inattesi, ci riportano antiche certezze. Quest’antico, questi brividi, mi davano come un incremento di vita, come un senso che sotto il labile istante s’accumulasse un tesoro già mio, che dovevo soltanto riconoscere.
Per questo, nulla mi era più caro che, in certe notti d’aprile o d’ottobre dopo tanto parlare e ascoltare, rientrando con un amico coetaneo indugiare il commiato. Tacevamo, o parlottavamo di cose indifferenti; nell’aria passavano barlumi, echi, voci lontane. Tra gli spigoli dei tetti occhieggiavano le stelle, o, talvolta, fra i rami di un albero. Come a uno strano gioco sorgeva la luna: disegnando quinte d’ombra tra le case, o sulla collina di là dal fiume frammentandosi contro le piante e straripando in cielo. L’amico taceva e si soffermava; io sentivo trapassarmi sui sensi, sulla pelle, l’alito di altre notti come questa.
Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla?
L’amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista così, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’infantile, tanto che dissi: – È una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna.
– Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa.
Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassù fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva.
Così quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo.
Cesare Pavese, La casa in collina (1948)