Calcutta
Mainstream
2015
Che colgono Luca Vecchi di sorpresa e lo spingono a un saluto preoccupato. Bella Luca.
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Che colgono Luca Vecchi di sorpresa e lo spingono a un saluto preoccupato. Bella Luca.
All’artista Abruzzese che risponde al nome di FeF e sedeva ad un banchetto non meglio identificato giù al Crack! che ci ha disegnato un regalo per un amico (“un appunto, Batman lo puoi fare incazzato?”) e che non incontreremo più se non in qualche delirio da insolazione: ci hai fatto tagliare e innamorare.
Nell’umida foresta pluviale del Congo, che scorre nell’omonimo libro di Crichton, è facile lasciarsi impressionare dai suoni echeggianti di creature lontane in avvicinamento; una manciata di pagine mi divide dalla fine di quest’avventura mentre l’egregio Gabriel mi accompagna con la colonna sonora di Rabbit-Proof Fence.
Dovessi anch’io finire col cranio disintegrato da una violenta forza sconosciuta, almeno avverrà ascoltando della buona musica. Da un punto di vista letterario sono così affascinanti queste cattedrali pluviali del Congo, in cui la luce del sole non giunge perché protetta da alberi alti decine e decine di metri, che la mente divaga in questi fitti labirinti e quasi sorvola sugli eccessivi tecnicismi in cui talvolta indugia Crichton – ma si sa, prendere o lasciare.
Afferro.
A Luglio si è svolto il Celtic Festival di Guidonia, il Fairylands, ed oltre alla splendida atmosfera e alla verde birra d’Irlanda ha suonato un gruppo irish folk nientemeno che di Bari, The Floggin’: con flauto, violino e bouzouki ci hanno letteralmente rapiti e trascinati a migliaia di chilometri, è stata davvero una gran bella esperienza.
Vista la loro performance meritano di essere omaggiati come meglio posso; da sinistra: Fabio Losito al violino, Giuseppe “Paddy” D’Aucelli al bouzouki, Pino Porsia ai flauti e vocals.
Forte Prenestino è una struttura talmente particolare che difficilmente non ti cattura; al di là della riqualificazione raggiunta con tanti sacrifici (parte della storia potete trovarla su Wikipedia), la mia latenza nerd ci ha sempre visto un micidiale livello di Quake III, o un Doom per i più nostalgici.
Se in geometria solida sapessi andare oltre il cubo certo tenterei di ricreare un livello del Forte; mago del 3D che stai leggendo, cestina i tuoi progetti attuali e corri a realizzare il mio sogno:
Ho già pronta anche la mappa:
Continua a leggere Doom Prenestino
Il fenomeno dei librigame divampò negli anni ’80 e Le colline infernali di Steve Jackson è un buon esempio di quel filone; in compagnia può essere un simpatico diversivo, specie se ci si avvale del superpotere della menzogna: se nella vita reale un’Arpia scende in picchiata per divorarvi gli occhi c’è ben poco che possiate fare, ma almeno nei librigame è possibile fingere che ciò non sia accaduto e proseguire nella lettura con gli occhi di cui prima.
È qui però che interviene la crudeltà di queste Colline infernali, e cito:
133
Prosegui per un sentiero che si inoltra nel sottobosco, e la vegetazione si fa sempre più fitta. Improvvisamente il suolo ti cede sotto i piedi. Puoi tentare la Fortuna.
Se sei fortunato vai all’89; se sei sfortunato o preferisci non tentare la Fortuna vai al 70.
Lancio i dadi, e diamine! Sono dalla mia.
89
Spicchi un salto in avanti e fai appena in tempo ad evitare il fossato; ti volti indietro e guardi dove saresti potuto cadere.
Vai al 170.170
Tiri un sospiro di sollievo, ma non è ancora il momento di cantar vittoria; te ne accorgi dopo qualche passo, quando i tuoi piedi mettono in azione un meccanismo segreto: tutt’a un tratto tre alberelli con la punta aguzza scattano davanti a te e ti si conficcano nel corpo all’altezza del cuore. Muori impalato da questo diabolico stratagemma, e purtroppo la tua missione è terminata. La tua testa si unirà a quelle che hai appena visto…
Il potere della menzogna è in grado di riportarmi al paragrafo 133, certo, ma cosa può contro i famelici tre alberelli che hanno appena trafitto la mia dignità?
Non ho più sentito nulla di lontanamente paragonabile a Creuza De Mä, che infatti continuo a duplicare – illegalmente! – per un sacco di amici Americani.
Questo racconta David Byrne di un album già trattato qui nel Rio del Vinile. Se infatti Byrne apprezza la World music al punto da fondare un’etichetta discografica ad essa dedicata (la Luaka Bop), non per questo non esperimenta suoni più elettronici e rock come nella colonna sonora di Young Adam, che ben cattura lo spirito claustrofobico della pellicola.
Ascolto De André da una vita eppure calarsi nel barcone di Crêuza De Mä è ogni volta diverso; sin dall’inizio gli autori, Faber scrittore e Mauro Pagani compositore, hanno inteso quest’opera come una delle tante perle del Mediterraneo (motivo per cui lingua ufficiale dell’album è il ligure, da secoli parlato in queste acque e ricco di parole tronche e sdrucciole, molto utili e duttili in quanto a metrica) dunque torna facile immaginarsi sulle onde all’ascolto dell’album.
In particolare la terza traccia approda nel porto di Sidone, città che nell’82 subì l’attacco delle truppe del generale Sharon nel contesto della guerra civile da anni furente in Libano; introdotto dalle voci di Ariel Sharon e Ronald Reagan, prontamente seguite da applausi, De André canta di un padre che perduto il bimbo sotto i cingoli di un carro armato si trova a piangerne la scomparsa in questa città che brucia. C’è poi il bouzouki di Pagani con le sue meste ridondanze ed il finale con coro gutturale e profondo che ben delineano l’umore del pezzo, il suo entroterra.
Accade che ascoltando The Blue Notebooks di Max Richter la suadente voce dell’attrice Tilda Swinton ci avvolga per sussurrare in un battere di macchina da scrivere:
When Thomas brought the news that the house I was born in no longer exists – neither the name, nor the park sloping to the river, nothing – I had a dream of return. Multicoloured. Joyous. I was able to fly. And the trees were even higher than in childhood, because they had been growing during all the years since they had been cut down.
Quanto a me, anche i ricordi più lontani mi coglievano come scoperte. Erano altrettanti risvegli che mi rimettevano nel presente. Il fatto più singolare – tanto che spesso lo provocavo ad arte – era di accorgermi che un gesto, un colore, una voce, li avevo già visti o sentiti chi sa quando, e che perciò risorgevano dalla mia stessa coscienza più che dalle cose intorno. A questo sospetto, a questa certezza di sentirmi radicato nel mondo, provavo un entusiasmo tranquillo che, pur essendo per natura limitato ai miei occhi e al mio corpo, poteva nella sua fugacità scuotermi come un incontro umano. Avevano veramente, questi risvegli sempre inattesi, qualcosa della presenza di un altro, la presenza di un amico o quella, ancor muta, di chi lo sarà presto e tacendo ci cammina accanto e ci guarda. Cose non dette trasparivano in fondo all’istante come un oggetto noto in fondo all’acqua di una vasca, e sarebbe bastato quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza. Ciò accadeva specialmente al mutare delle stagioni, quando l’aria è tutta corsa da brividi di passato che, freschi e inattesi, ci riportano antiche certezze. Quest’antico, questi brividi, mi davano come un incremento di vita, come un senso che sotto il labile istante s’accumulasse un tesoro già mio, che dovevo soltanto riconoscere.
Per questo, nulla mi era più caro che, in certe notti d’aprile o d’ottobre dopo tanto parlare e ascoltare, rientrando con un amico coetaneo indugiare il commiato. Tacevamo, o parlottavamo di cose indifferenti; nell’aria passavano barlumi, echi, voci lontane. Tra gli spigoli dei tetti occhieggiavano le stelle, o, talvolta, fra i rami di un albero. Come a uno strano gioco sorgeva la luna: disegnando quinte d’ombra tra le case, o sulla collina di là dal fiume frammentandosi contro le piante e straripando in cielo. L’amico taceva e si soffermava; io sentivo trapassarmi sui sensi, sulla pelle, l’alito di altre notti come questa.
Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla?
L’amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista così, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’infantile, tanto che dissi: – È una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna.
– Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa.
Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassù fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva.
Così quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo.
Cesare Pavese, La casa in collina (1948)