Alla Rocca di Swys

La cena comprendeva oca, pollo, pernice, carne di cervo e un orribile vino rimasto troppo a lungo nelle cantine dopo essere giunto in Britannia. Terminato il pasto, ci accomodammo sui divani e un’arpista suonò per noi.

I divani erano mobili per le stanze delle donne: Galahad e io eravamo a disagio su quei bassi sedili troppo imbottiti, ma io ero contento perché ero riuscito a sedermi accanto a Ceinwyn. Per un poco mi tenni dritto, poi mi appoggiai sul gomito per poter parlare sottovoce con lei. Mi complimentai per il suo annunciato matrimonio con re Gundleus.

Ceinwyn mi lanciò un’occhiata ironica. «Sembrano parole da cortigiano» disse.

«A volte sono obbligato a trasformarmi in cortigiano, signora. Mi preferiresti nei panni di guerriero?»

Anche lei si appoggiò sul gomito, in modo che la nostra conversazione non disturbasse la musica; per la sua vicinanza mi parve che i miei sensi galleggiassero nel fumo.

«Il mio signore Gundleus» disse sottovoce Ceinwyn «ha chiesto la mia mano come contropartita per l’impiego del suo esercito nella prossima guerra.»

«Allora il suo esercito, signora, è il più prezioso della Britannia.»

Ceinwyn non sorrise al complimento, ma continuò a guardarmi negli occhi. «È vero» domandò a voce ancora più bassa «che ha ucciso Norwenna?»

Fui turbato da tanta franchezza. «Gundleus cosa dice?» replicai, evitando una risposta diretta.

«Lui dice» spiegò Ceinwyn con un mormorio che risultò quasi impercettibile «che i suoi uomini furono assaliti e che nella confusione Norwenna morì. Sostiene che si trattò di un incidente.»

Lanciai un’occhiata alla fanciulla che suonava l’arpa. Le due zie ci guardavano con odio, ma Helledd non pareva preoccuparsi della nostra conversazione. Galahad, un braccio intorno alle spalle del piccolo Perddel già addormentato, ascoltava la musica.

«Quel giorno, signora, ero nel castello dell’Isola di Cristallo» dissi, rivolgendomi di nuovo a Ceinwyn.

«E cosa accadde?»

Decisi che la sua franchezza meritava una risposta altrettanto franca. «Norwenna s’inginocchiò per dargli il benvenuto, signora, e Gundleus le cacciò in gola la spada. L’ho visto con i miei occhi.»

Per un istante, l’espressione di Ceinwyn si indurì. La luce tremolante le bruniva la pelle chiara e lanciava ombre sulle sue guance e sotto il labbro inferiore. La principessa indossava una ricca veste di lino azzurro guarnita di pelliccia bianco argento con piccole macchie nere, il manto invernale degli ermellini. Una torque d’argento le circondava il collo e anelli d’argento le pendevano dalle orecchie. L’argento s’intonava alla perfezione al colore dei suoi capelli.

Emise un breve sospiro. «Temevo di dover ascoltare questa verità» disse. «Ma sono una principessa e ciò significa che devo sposare non chi voglio, ma chi più conviene al regno.»

Per un poco girò la testa verso l’arpa, poi si sporse di nuovo verso di me. «Mio padre afferma che questa guerra riguarda il mio onore. È così?»

«Per lui, signora, è così. Ma Artù rimpiange la ferita che ti ha provocato, te lo posso assicurare.»

Ceinwyn accennò a una smorfia. L’argomento era doloroso, ma lei non riusciva ad abbandonarlo perché il rifiuto di Artù aveva cambiato la sua vita più profondamente e tristemente di quanto non avesse cambiato quella del mio signore. Artù aveva trovato felicità e matrimonio, mentre lei era rimasta a patire i lunghi rimpianti e a cercare le dolorose risposte che, evidentemente, non aveva trovato.

«Tu capisci Artù?» mi chiese dopo un poco.

«A quel tempo non lo capii, signora. Pensai che fosse pazzo. E, come me, tutti gli altri.»

«E ora?» domandò lei guardandomi negli occhi.

Riflettei qualche istante. «Penso, signora, che per una volta in vita sua Artù sia stato preda di una follia che non poteva dominare.»

«L’amore?»

Guardai i suoi occhi azzurri e mi dissi che non ero innamorato di lei e che la sua fibula era un talismano finito per caso in mano mia. Lei era una principessa e io il figlio di una schiava.

«Sì, signora» risposi.

«Capisci quella follia?»

Non vedevo più niente, solo Ceinwyn. Helledd, il principino, Galahad, le zie, l’arpista, la sala, niente esisteva. Vedevo solo i grandi occhi tristi di Ceinwyn, udivo solo i battiti del mio cuore.

«Capisco che puoi guardare negli occhi una persona e renderti conto a un tratto che la vita ti sarà impossibile senza di lei. Che la sua voce può far saltare un battito al tuo cuore, che la sua compagnia è tutta la felicità che potrai mai desiderare, che la sua assenza ti lascerà orbato e perduto.»

Per un poco Ceinwyn rimase in silenzio, si limitò a guardarmi con aria perplessa.

«A te, Derfel, è mai accaduto?» chiese infine.

Esitai. Sapevo quali parole il mio cuore avrebbe voluto dire e sapevo anche quali parole la mia condizione sociale mi avrebbe obbligato a dire; ma un guerriero non prospera certo nella timidezza, pensai, e lasciai che il cuore governasse la lingua.

«A me non era mai accaduto, signora, fino a questo momento.»

Quelle parole richiesero più coraggio di quanto non me ne fosse mai servito per infrangere un muro di scudi.

Ceinwyn distolse subito lo sguardo e si irrigidì; mi maledissi per averla offesa, con la mia stupida goffaggine. Mi ritrassi sul divano, rosso in viso, imbarazzato, mentre la principessa applaudiva l’arpista e gettava qualche moneta d’argento sul tappeto, accanto all’arpa. Le chiese di suonare il Canto di Rhiannon.

«Credevo che non ascoltassi, Ceinwyn» disse sornionamente una delle zie.

«Ascolto, Tonwyn, ascolto e traggo grande piacere da tutto ciò che sento» replicò Ceinwyn.

Bernard Cornwell, Il re d’inverno (1995)